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Quando stare lontani fa bene alla salute


Social distancing per prevenire la diffusione delle malattie, un’arma contro il contagio di molti animali, non solo per gli esseri umani

Come tutte le altre scimmie antropomorfe, anche noi siamo animali sociali e sicuramente la necessità di praticare il distanziamento, come risposta necessaria per fronteggiare la pandemia COVID-19, ci ha costretto a molti cambi di abitudini. In molti casi, anche a sacrifici personali, cui forse non eravamo preparati.
Sorprendentemente però, si tratta della pratica per il controllo della diffusione delle malattie più diffusa in natura, e non solo tra noi umani. 
Quello che sta succedendo ci apre una finestra su un mondo di curiosità e comportamenti che gli altri animali mettono in pratica per proteggersi dalla diffusione delle malattie. Ci fornisce lo spunto per comprendere come gli agenti patogeni infettivi possano rappresentare non solo una minaccia alla vita di gruppo di esseri umani e altri animali sociali, ma anche un motore dell'evoluzione, del comportamento sociale e del controllo delle dimensioni di una popolazione o di una specie. Con l'aumento del rischio e della frequenza di nuovi spillover, la capacità degli animali sociali di reagire alle mutevoli pressioni delle malattie infettive potrebbe fare la differenza tra sopravvivenza o estinzione. Un articolo pubblicato su Proceedings Royal Society nell’agosto di quest’anno (Townsend AK, 2020) ci racconta proprio dei cambiamenti nel comportamento sociale degli esseri umani e della fauna selvatica in risposta alle malattie. 
Molti animali, oltre a praticare l’autoisolamento, sono in grado di limitare i costi che questo cambiamento di abitudini comporta o, al contrario, mantenere quei vantaggi cui questo può portare. Sappiamo benissimo che condurre una vita di gruppo porta molti vantaggi: la nostra “socialità” ha radici nella complessa storia evolutiva dell’uomo ed è in parte ciò che ci ha portato ad essere ciò che siamo. Per questo la pressione, lo stress, la limitazione ambientale e la perdita della completa capacità di cambiare i nostri comportamenti rendono così difficile praticare – oggi – il “social distance”.
Gli esseri umani, però, sono solo uno dei tanti animali sociali che hanno dovuto affrontare questa sfida. 

Come fanno gli animali a sapere quando hanno bisogno di prendere le distanze?
Andrea Townsend e Dana Hawley, coautrici dell’articolo, ci raccontano come parta tutto dal riconosciment dei sintomi. Quelli di COVID-19 sono numerosi, differenti e difficili da individuare: senza analisi adeguate, sapere quando qualcuno è malato diventa molto complicato. Ma in natura esistono anche metodi più diretti per riconoscere i sintomi: alcuni animali come i fringuelli domestici usano segnali comportamentali molto generici, come la letargia, per valutare potenziali infezioni ed evitare contatti con determinati individui. In altri casi, invece, sono stati sviluppati segnali abbastanza complessi per indurre l'allontanamento sociale. Ad esempio, l'aragosta spinosa caraibica: crostaceo sociale che normalmente vive in gruppo, ha evoluto un sistema di rilevamento di un segnale chimico nelle urine delle aragoste malate per evitare le aree occupate da queste. Come l’isolamento viene praticato da questi animali è molto particolare e può essere differente di caso in caso. L’ ordinamento sociale delle aragoste è organizzato in tane che forniscono loro protezione: per loro, “isolamento sociale” significa quindi abbandonare la tana (prospettiva piuttosto pericolosa per loro). In altri casi il social distance è molto più sottile: gli individui sani semplicemente interagiscono meno con un particolare individuo, se malato.
Un altro caso riguarda i mandrilli. Il loro comportamento in caso di malattia è stato scoperto grazie ad un esperimento. I ricercatori hanno preso le feci di individui che avevano parassiti e di individui che ne erano privi e ne hanno messo una piccola quantità sul lato di un albero. Hanno scoperto che i primati erano molto più attratti dalle feci di animali senza parassiti rispetto a quelli che erano parassitati.
Anche in fatto di “quarantena” possiamo imparare qualcosa dagli altri animali: uno degli esempi migliori è rappresentato dagli insetti sociali come formiche e api. In alcuni casi, gli insetti infetti lasciano volontariamente la colonia per isolarsi e morire. Il sacrificio del singolo, in questo caso, è a vantaggio di tutta la colonia e gli scienziati ritengono che questo tipo di comportamento possa essere premiato (evolutivamente) in quanto gli individui delle colonie sono strettamente imparentati tra loro, più che nei gruppi familiari umani. Il vantaggio è rappresentato dal proteggere “la propria famiglia”, quindi l’intero patrimonio genetico della colonia stessa.
Anche la primatologa Jane Goodall, durante le sue osservazioni sugli scimpanzé del Gombe Stream National Park, in Tanzania è stata testimone dell’allontanamento di un individuo malato da parte del gruppo. Si trattava di uno scimpanzé di nome McGregor, malato di poliomielite, attaccato e cacciato dal gruppo.
Ma esistono anche casi particolari in cui, nonostante il rischio di contagio, gli animali non adottano il distanziamento sociale. Uno degli esempi più strani ce lo fornisce il diavolo della Tasmania. È uno dei rarissimi casi di specie che può contrarre un cancro trasmissibile. Questo tipo di cancro si trasmette da un individuo all’altro attraverso il morso, grazie al passaggio diretto di cellule cancerose. La cosa più semplice da pensare è che questi animali abbiano imparato a non mordersi se malati, ma non è così. Il morso per loro è un atto molto importante sia durante l’accoppiamento sia nelle lotte tra maschi. 
Le stranezze nel mondo animale e i modi creativi che Madre Natura ha trovato per garantirci la sopravvivenza hanno anche modalità più complesse che portano a conseguenze, nelle società animali, davvero sorprendenti. Ad esempio, in uno studio pubblicato su Science nel 2018 (Stroeymeyt N, 2018) Stroeymeyt e colleghi hanno scoperto per caso che la rete sociale delle formiche nere (Lasius niger), che possiamo definire strutturata a “moduli”, funziona diversamente in base alla presenza o assenza di un potenziale patogeno. In strutture sociali organizzate in questo modo, dove ci sono singoli gruppi che sembrano formare i nodi di una rete più grande (la colonia), alcuni patogeni infettivi potrebbero favorire una maggiore differenziazione all'interno dei singoli gruppi sociali, piuttosto che una riduzione del grado di socialità in genere. In pratica gli individui si muovono maggiormente all’interno dei singoli gruppi, ma limitano i movimenti tra gruppi diversi. Qui la biologia prende in prestito un concetto proprio della matematica e dell’informatica: la modularità. Questa tanto è più alta tanto più la rete è composta da gruppi ben divisi – quindi con alta densità – ma con bassa connessione tra un “modulo” (gruppo) e l’altro. E in presenza di un agente patogeno, in una colonia di formiche la modularità cresce, rallentando la diffusione di un ipotetico patogeno attraverso la colonia. 

Che ruolo gioca l’ambiente?
Ci sono casi in natura in cui le condizioni dell’ambiente e l’incapacità di cambiare i propri comportamenti possono limitare le possibilità di ridurre le distanze e quindi la diffusione delle malattie. In molte specie di anfibi, ad esempio, la dipendenza dall'acqua per la deposizione delle uova e la tendenza a deporre masse di uova in comune che producono girini altamente sociali potrebbero aumentare il rischio di trasmissione del Ranavirus e del patogeno fungino Batrachochytrium dendrobatidis (Blaustein, et al., 2018). Allo stesso modo, l’inquinamento delle acque fa sì che gli uccelli acquatici possano sfruttare un numero sempre più limitato di corsi d’acqua, finendo per creare veri e propri assembramenti lungo i percorsi migratori. Questo fattore è stato collegato alla crescente frequenza di morie causate dal colera aviario (Wobeser, 2006). Al contrario, le specie più adattabili dal punto di vista del comportamento sembrano essere meglio predisposte per resistere a nuove malattie alterando i loro comportamenti sociali.

Tutte queste storie, oltre a sorprenderci, ci fanno capire che il distanziamento sociale funziona, nonostante i sacrifici che può comportare. Quando un comportamento si evolve più e più volte in specie differenti e non direttamente imparentate, significa che rappresenta un carattere premiato dalla selezione naturale e che, nonostante sia molto costoso per specie sociali come noi, i benefici superano chiaramente i costi. 

Riferimenti
Blaustein, A., Urbina, J., Snyder, P., Reynolds, E., Dang, T., Hoverman, J., . . . Hambalek, N. (2018). Effects of Emerging Infectious Diseases on Amphibians: A Review of Experimental Studies. Diversity, 10(81).
Stroeymeyt N, G. A. (2018). Social network plasticity decreases disease transmission in a eusocial insect. Science, 362(6417), 941. doi:10.1126/science.aat4793
Townsend AK, H. D. (2020). Emerging infectious disease and thechallenges of social distancing in humanand non-human animals. Proc. R. Soc., B 287(1932). doi:10.1098/rspb.2020.1039
Wobeser, G. (2006). Essentials of disease in wild animals. Iowa, IA: Blackwell Publishing.

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