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Da specie a specie, da scimmia a scimmia: se Sars-Cov-2 facesse la sua comparsa anche tra le altre scimmie antropomorfe


Non ci sono ancora casi noti, ma le principali riserve e santuari che accolgono scimpanzé, gorilla, bonobo e orango si stanno muovendo per proteggerli da eventuali contagi. Ne abbiamo parlato con Daniela De Donno, presidente del Jane Goodall Institute Italia

Sars-Cov-2 è arrivato a noi dai pipistrelli ma, così come molti altri virus hanno già fatto, potrebbe non fermarsi all’uomo. Se il nuovo coronavirus arrivasse alle popolazioni di scimpanzé (Pan troglodytes) potrebbe essere fatale per l’intera specie, oggi a rischio di estinzione con poco più di 300 mila individui distribuiti in modo frammentato in Africa centrale, orientale e occidentale (vedi Red List IUCN). Incapaci di praticare in autonomia il distanziamento sociale e mettere in isolamento i soggetti infetti, se si ammalassero, rischierebbero di scomparire per sempre. 
Il timore nasce da uno studio preliminare pubblicato a inizio aprile sull'archivio online bioRxiv che raccoglie le ricerche in biologia in attesa di revisione. Non si tratta quindi di uno studio già validato, ma le premesse non sono da sottovalutare. L’ipotesi si fonda sul fatto che il nuovo coronavirus sfrutta una molecola specifica sulle membrane cellulari per riuscire a entrare nelle nostre cellule per replicarsi e infettarle: si tratta della proteina “ACE2”, che in molti primati è identica a quella umana. In pratica, abbiamo la stessa serratura e il virus ne possiede la chiave.
Come possiamo quindi proteggere le altre scimmie antropomorfe? Ce lo racconta Daniela De Donno, presidente e direttrice esecutiva del Jane Goodall Institute Italia, che opera da più di vent’anni nel promuovere la ricerca sul campo e la tutela del patrimonio naturale. Da oltre quarant'anni il JGI è impegnato nella conservazione degli scimpanzé e attualmente lavora in due santuari: nella Repubblica del Congo e in Sudafrica. La dottoressa De Donno ci racconta come, in questo periodo, il fermo del turismo abbia portato gravi conseguenze soprattutto in Sudafrica, dove i visitatori contribuivano in modo significativo al mantenimento degli scimpanzè attraverso le loro donazioni. I disagi si fanno sentire non solo sull’economia locale che si basa sul turismo, ma anche sulla gestione interna dei santuari stessi. Infatti il volontariato e la ricerca etologica, condotta anche da ricercatori locali, stanno subendo grossi rallentamenti a causa delle limitazioni nei viaggi. Se è fondamentale applicare i protocolli di contenimento del contagio di covid-19 per le persone che lavorano nei centri, lo è altrettanto per gli animali ospitati che possono venire a contatto con il virus attraverso la vicinanza con gli umani. Spesso alcuni virus che provocano a noi umani solo spiacevoli fastidi, come l’herpes o il raffreddore, possono essere molto pericolosi per le specie selvatiche. Come limitare quindi i rischi di contagio nei rescue center e nei santuari, in particolare quelli che fanno avvicinare i turisti agli animali? La risposta della presidente è stata molto semplice: “abolire completamente il contatto con loro”. Sebbene ad oggi, nell’esperienza del JGI Italia, non siano stati riscontrati problemi di COVID-19 tra gli scimpanzé ospitati, non dobbiamo dimenticare come la vicinanza di specie differenti fuori dal loro ambiente naturale, la distruzione degli ecosistemi e il consumo di bushmeat (carne di animali selvatici) abbia già portato in passato allo spillover di virus molto pericolosi, come l’HIV. Questo passaggio può avvenire verso l’uomo o verso altri animali, ed è quindi di fondamentale importanza applicare tutti i protocolli necessari per proteggere gli scimpanzé e le persone che lavorano nei centri. I volontari e tutti coloro che hanno accesso ai santuari del JGI, infatti, fanno un check prima di entrare in servizio e lavorano su turni per limitare i contatti, non solo tra persone, ma anche verso gli animali. Il controllo sugli scimpanzé che vivono liberi nei parchi naturali risulta invece più difficile: “nel Parco Nazionale del Gombe per esempio vengono usate speciali camera-trap per monitorare gli scimpanzé e individuare eventuali comportamenti anomali”, ci spiega De Donno. 
Lo stop dei viaggi ha inoltre portato a un minor presidio del territorio e a un conseguente incremento degli episodi di bracconaggio: la dottoressa ci racconta che in risposta a queste nuove necessità l’UNESCO ha auspicato l’aumento della distribuzione dei droni nelle aree protette. 
Oggi la pandemia ci porta a porre maggiore attenzione alle problematiche conservazionistiche, ma le minacce a cui sono esposte le scimmie antropomorfe non si limitano all’attuale emergenza sanitaria. La questione più critica per gli scimpanzé è la riduzione dell’habitat: il lavoro del JGI consiste in gran parte nel cercare di ampliarne il territorio molto frammentato attraverso la creazione di corridoi ecologici. Un’altra grave minaccia è rappresentata dai cambiamenti climatici: sebbene gli scimpanzé siano una specie abbastanza adattabile, ci spiega la dr.ssa De Donno, questi processi richiedono molto tempo, e la velocità a cui questi cambiamenti avvengono non lo concede. Proteggere gli scimpanzé significa però anche coinvolgere le comunità locali che devono conoscere e comprendere per diventare parte attiva nelle azioni di conservazione portate avanti sul territorio.
La speranza della dr.ssa De Donno, e anche la nostra, è che si riesca a sensibilizzare i policy makers, al di là dei tempi della pandemia, affinché siano promosse azioni e portate avanti decisioni a favore della conservazione della biodiversità e del lavoro di chi è impegnato nella sua tutela.

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