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Siamo ciò che mangiamo, mangiamo ciò che siamo


Un cambiamento di abitudini alimentari che arriva dalla Cina, come conseguenza diretta della pandemia Covid19, ci spinge a riflettere (anche) sulle nostre diete. Ma è necessario acquisire uno sguardo più ampio: una comprensione della nostra storia è essenziale per guidare le nostre scelte.

Una delle consapevolezze maggiori cui ci ha portato l’attuale crisi sanitaria è relativa a ciò che mangiamo. Così ci dice il report di Reuters uscito lo scorso aprile, riferendosi in particolare alla Cina, dove il coronavirus sembra aver suscitato diversi timori sulla sicurezza della carne. Secondo il report, in Asia, la domanda di alimenti proteici di origine vegetale sta aumentando proprio a causa del collegamento tra carne di animali selvatici e lo spillover avvenuto in uno dei wet-market di Wuhan. Questa nuova consapevolezza spinge alcuni consumatori, in particolare a Hong Kong e nella Cina continentale, a ripensare alla propria dieta, muovendo l’offerta del mercato alimentare verso alternative vegetali alle proteine animali. Questo cambio di abitudini alimentari potrebbe avere conseguenze anche a livello globale? Non è da escludere – la Cina è infatti il primo consumatore di carne al mondo – ma è ancora presto per dirlo.
Quello che è certo è che la domanda di cibo influenza la produzione agricola e che il consumo di alimenti e bevande ha un grande impatto sull'ambiente, con gravi conseguenze anche sulla perdita di biodiversità.

Esistono diete più sostenibili di altre?
Dato il crescente interesse verso le diete vegetariane, plant-based o vegane e le relative diatribe legate alla sostenibilità delle diverse abitudini alimentari, negli ultimi anni diverse ricerche hanno cercato una risposta alla domanda: “qual è la dieta più sostenibile?”. Uno studio californiano (Harold J Marlow 2009) confronta l'effetto ambientale di una dieta vegetariana e non vegetariana (in California). Ed è soprattutto la carne bovina a fare la differenza: su 11 prodotti alimentari per i quali il consumo differisce tra vegetariani e non vegetariani, la dieta di questi ultimi ha richiesto 2,9 volte in più acqua, 2,5 volte in più energia primaria, 13 volte in più fertilizzante e 1,4 volte in più pesticidi rispetto alla dieta vegetariana.
Un altro interessante studio (Rosi 2017) pubblicato su Scientific Reports di Nature ha invece valutato l'impatto ambientale di tre diete: onnivora, ovo-latto-vegetariana e vegana, tenendo in considerazione la variabilità interindividuale. Se da una parte non sono state riscontrate differenze per gli impatti ambientali di ovo-latto-vegetariani e vegani, dall’altra sembra che la grossa differenza la facciano le scelte individuali, indipendentemente dal tipo di dieta. Avendo preso in considerazione anche la variabilità individuale è stato possibile osservare come alcuni vegetariani e vegani abbiano impatti ambientali più elevati rispetto a quelli di alcuni onnivori. Pertanto, indipendentemente dai benefici ambientali delle diete a base vegetale, è necessario pensare in termini di abitudini alimentari individuali. Insomma: per quanto affannosamente cercato e commercialmente decantato, il vero “cruelty free” o “eco-friendly” non esiste. Indipendentemente da chi li mangerà, tutti i prodotti provenienti da coltivazioni intensive portano con sé problemi ambientali ed etici (sfruttamento del lavoro, sicurezza ecc). 
Ambiente, etica del lavoro, e non solo: le nostre scelte alimentari hanno un impatto anche sul clima. Circa il 15-30% delle emissioni totali di gas serra provengono infatti dal settore alimentare (Castañé S. 2017). Se volessimo avere una visione globale che valuti sia la qualità nutrizionale sia l'impatto ambientale relativi a un tipo di dieta, dovremmo leggere lo studio di Castañé e Antón che compara la dieta mediterranea e quella vegana. Uno studio molto completo che misura l'indice di qualità nutrizionale, le categorie di impatto del potenziale di riscaldamento globale e dell'impatto della biodiversità regionale a causa dell'uso del suolo.
Da questo studio è la dieta mediterranea, Patrimonio Culturale Immateriale dell'Umanità a uscirne “perdente”.
La dieta “veg” ha mostrato di avere una qualità nutrizionale più alta rispetto a quella mediterranea, principalmente perché contiene meno grassi saturi, zuccheri aggiunti e sodio. Anche gli impatti ambientali causati dalla dieta vegana sono minori, mentre quella mediterranea è “sfavorita” principalmente dalla presenza di prodotti animali e pesci, il cui allevamento e/o cattura hanno un impatto elevato sulle risorse naturali. Nel tentativo di fornire una possibile soluzione al trilemma dieta-ambiente-salute, lo studio conclude che un mix di queste due diete, in cui tutte le sostanze nutritive vengono consumate nei livelli raccomandati e dove vengono utilizzati solo prodotti con minore impatto ambientale, aiuterebbe forse a ridurre le emissioni di gas serra, la deforestazione e la perdita di biodiversità, nonché a prevenire le malattie legate all'alimentazione.

Stili di vita dalle origini antichissime
Ma se crediamo che l’impatto delle nostre attività abbia conosciuto tempi migliori, se pensiamo che il rapporto uomo–ambiente abbia vissuto un’“età dell’oro” nel periodo preindustriale, dovremo ricrederci e con non poco stupore scopriremo come molti dei misteri del passato abbiano trovato una soluzione, ancora una volta, nel nostro modo di sfruttare le risorse del Pianeta. Se molte delle estinzioni del recente passato sappiamo essere dovute all’uomo (il dodo a Mauritius, gli uccelli giganti moa della Nuova Zelanda, gli uccelli elefante in Madagascar), è forse meno noto quale fu il destino di molte popolazioni umane misteriosamente decadute. Uno degli esempi più famosi è il mistero dell’Isola di Pasqua. Poco più di 160 km2 di desolazione, con la biodiversità vegetale più bassa del Sud Pacifico, Rap Nui si presenta già dal nome: grande isola-roccia. E di roccia sono le centinaia di statue antropomorfe alte più di 10 m e pesanti 85 tonnellate che l’hanno resa il mistero che tutti conosciamo fin dalla sua scoperta, nel 1722. Colonizzata dai polinesiani già nel 400 d.C., oggi ospita un terzo della popolazione originaria. Quali sono le cause di questo decremento della popolazione? E perché delle migliaia di statue scolpite alcune sono rimaste nella cava da dove gli uomini estraevano la roccia e solo poco più di 300 sono state erette? Le cose non sono sempre state così: ricerche archeologiche e paleontologiche hanno portato alla luce come un tempo fosse un’isola rigogliosa e coperta da fitte foreste. Già intorno al 1500 gli alberi erano scomparsi. L’uomo e la sua cultura portarono sull’isola l’agricoltura e l’allevamento e con essi, il disboscamento e… la fame! Senza più alberi non furono più in grado di usarne i tronchi per trasportare le statue e non le scolpirono più, mentre l’impoverimento del suolo fu la diretta conseguenza del disboscamento (Diamond 1994).

Molti dei passi decisivi della cultura umana hanno avuto origine in Medio Oriente prima che altrove: la scrittura, l’agricoltura, la domesticazione, la nascita degli stati imperiali. È proprio osservando lo spostamento del potere imperiale nei secoli che ci accorgiamo di una cosa: questo si trasferisce via via verso occidente fino all’Europa del Nord. Perché dalla Persia, alla Grecia fino a Roma il primato passò sempre più ad occidente? La risposta è semplice quanto sconcertante: ogni popolazione deve aver progressivamente distrutto le proprie risorse. Se in piccole società che popolano da molto tempo il proprio territorio si è avuto il tempo per conoscere l’ambiente e sviluppare stili di vita sostenibili, una popolazione che colonizza un nuovo ambiente – non familiare – e magari sviluppa nuove tecnologie può non aver avuto il tempo di comprendere il proprio impatto sull’ambiente (Diamond 1994). Oggi abbiamo i mezzi e le conoscenze per interpretare il passato e comprenderne gli errori. La conoscenza e la comprensione della nostra storia dovrebbero guidare le nostre scelte: i segni del declino sono sotto gli occhi di tutti. Non era così per gli uomini che ci hanno preceduto nei secoli scorsi. Abbiamo le conoscenze scientifiche che loro non avevano, i mezzi di comunicazione che ci connettono in tempo reale, ma nonostante questo continuiamo a disboscare e sovrasfruttare le nostre risorse. Se nel passato è stata la mancanza di conoscenza a portarci in errore, oggi è una forma di miopia grave che ci porta a guardare troppo da vicino uno scenario che ha orizzonti molti più ampi e i cui contorni sfumati ci inducono a farci domande sbagliate o parziali - “qual è la dieta più sostenibile?” – senza tener conto di un contesto molto più grande, dai numerosi aspetti interconnessi tra loro.

Riferimenti
Castañé S., Antón A. «Assessment of the nutritional quality and environmental impact of two food diets: A Mediterranean and a vegan diet.» Journal of Cleaner Production 167 (2017): 929-937.
Diamond, Jared. Il Terzo Scimpanzé. 2006. Torino: Bollati Boringhieri, 1994.
Harold J Marlow, William K Hayes, Samuel Soret, Ronald L Carter, Ernest R Schwab, Joan Sabaté. «Diet and the environment: does what you eat matter?» The American Journal of Clinical Nutrition 89, n. 5 (2009): 1699S - 1703S.
Rosi, A., Mena, P., Pellegrini, N. et al. «Environmental impact of omnivorous, ovo-lacto-vegetarian, and vegan diet.» Sci Rep 7, n. 6105 (2017).

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