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Se l’industria agroalimentare divora la biodiversità


All’insostenibilità dei nostri consumi concorre anche il settore agroalimentare che mette a rischio la conservazione degli ecosistemi e, di conseguenza, anche la nostra salute

Carote arancioni, cavoli verdi e pomodori rossi: sono questi i colori della biodiversità “a tavola” a cui siamo abituati. Tuttavia la natura ne ha previsti molti di più: colori e forme di una diversità (genetica) che sta scomparendo sotto la pressione di un modello agricolo industriale basato sulla replicabilità e sulla standardizzazione. Tutto ciò che non è realizzabile con una produzione lineare è evitato a vantaggio della quantità a costi inferiori. Ma a quale prezzo per la nostra salute e quella del Pianeta?
 

Biodiversità e agricoltura: relazione sostenibile? 
Quando parliamo di biodiversità, non intendiamo solo quella relativa agli habitat naturali e le specie selvatiche, ma anche quella agricola. Questa è il risultato delle interazioni tra selezione naturale e artificiale messa in atto dall’uomo con l’agricoltura. Possiamo pensare alla biodiversità agricola come un sottoinsieme della biodiversità, di cui fanno parte piante e animali domestici direttamente coinvolti nei sistemi di coltura, allevamento, silvicoltura o acquacoltura, e le specie forestali e acquatiche utilizzate a fini alimentari. Comprende inoltre la vasta gamma di organismi che vivono all'interno e intorno ai sistemi di produzione agricoli: piccoli invertebrati, specie impollinatrici e molti altri organismi ancora non identificati o le cui funzioni negli ecosistemi sono oggi poco note (microrganismi, batteri). Un ambiente agro-silvo-pastorale ad alta biodiversità fornisce molti servizi ecosistemici vitali: la creazione e il mantenimento di suoli sani, l'impollinazione di piante, il controllo dei parassiti e la creazione di habitat per la fauna, compresi pesci e altre specie vitali per la produzione alimentare e il sostentamento agricolo stesso. Questa diversità, oltre a garantire il nutrimento alle popolazioni umane, è di grande importanza nello sviluppo di un'agricoltura sostenibile e della sicurezza alimentare. Ecco perché va difesa e conservata.

Un’alimentazione sempre meno ricca, un ambiente sempre meno sano
Oggi questo patrimonio genetico si sta perdendo, a causa del sovrasfruttamento delle risorse e delle regole del mercato: le specie di cui ci nutriamo sono sempre meno a discapito di quelle realmente disponibili. Lo dice il report 2019 della FAO: delle 6000 specie vegetali coltivabili, quelle effettivamente prodotte sono circa 200, e il 66% della produzione agricola globale è rappresentato da solo 9 specie. Anche nell’allevamento i dati ci raccontano una storia molto simile (FAO Commission on Genetic Resources for Food and Agriculture 2019). Se un ecosistema è sano contribuisce a regolare il clima, salvaguardare la fertilità del suolo, fornendo inoltre habitat diversi a piante e animali. Tutte queste funzioni sono minacciate da cambiamenti nella gestione del suolo e dell'acqua e dal sovrasfruttamento delle risorse. Crescita della popolazione, urbanizzazione, industrializzazione dell'agricoltura aggravano ulteriormente l’impatto, con gravi ricadute anche sulla nostra salute.

Agricoltura e malattie infettive: una storia antica
Per comprendere come siamo arrivati a questo punto, dobbiamo fare un viaggio indietro nel tempo. Fino a quando, 7 milioni di anni fa, i nostri antenati prendono una strada evolutiva diversa dalle altre scimmie antropomorfe e iniziano a raccogliere erbe e frutti spontanei e cacciare. Da allora, bisogna attendere la fine dell’ultima glaciazione per l’arrivo dell’agricoltura, circa 11 mila anni fa. In tempi geologici, praticamente un minuto fa. È da questo momento che le cose cambiano: la disponibilità del cibo aumenta, e così anche la popolazione umana. Diventiamo più numerosi e la storia ci dice che il nostro impatto sul Pianeta inizia a cambiare. Se prima della rivoluzione agricola un ettaro di territorio poteva sfamare 10 persone, con l’avvento dell’agricoltura e la transizione da nomadesimo a sedentarietà lo stesso territorio ha potuto sostentare da 10 a 100 volte il numero di persone. In questo scenario gli animali domestici sostituiscono la selvaggina come fonte primaria di proteine e supportano il miglioramento della produzione agricola. In questa ricchezza, dove l’uomo sembra aver trovato la dimensione del suo “successo” evolutivo, inizia il nostro insostenibile impatto sulla Terra. Impatto che da subito ha avuto conseguenze anche sulla nostra specie: nascono le epidemie. Virus e patogeni per diffondersi hanno bisogno di un gruppo di ospiti abbastanza numeroso e poco disperso, fanno invece molta fatica in piccoli gruppi molto dispersi (come quelli dei cacciatori-raccoglitori). Se le epidemie sembrano essere destinate a esaurirsi in popolazioni inferiori al mezzo milione di abitanti, in quelle più numerose le infezioni possono spostarsi da un gruppo all’altro velocemente (Diamond 1994 e bibliografia di riferimento). Le grandi epidemie si sono sviluppate insieme all’aumento della densità di popolazione, a partire da 10-11 mila anni fa: è proprio con la nascita dell’agricoltura che abbiamo i primi “assembramenti”.
Densità abitativa, sedentarietà e tutte le conseguenze che queste portano (rifiuti, vicinanza con gli escrementi di animali domestici, disboscamento) hanno trasformato l’agricoltura in un vero e proprio trampolino di lancio per i patogeni pronti allo spillover. E se i primi insediamenti sono stati l’inizio di questo meccanismo, le città e i centri urbani moderni ne sono diventati la culla.
Questo ci dà l’idea di come l’agricoltura, fin dai suoi albori, sia stata un prerequisito fondamentale per arrivare alle “armi, all’acciaio e alle malattie”.

In cerca di sostenibilità
Il nostro impatto su questo Pianeta ha quindi origine con la comparsa della nostra specie, e con l’agricoltura lo abbiamo esteso globalmente. Ovunque assistiamo all'alterazione e alla perdita di habitat. Tra le cause, in varie regioni del mondo, lo sfruttamento eccessivo, la caccia e il bracconaggio (in particolare in Africa), la deforestazione in Asia, i cambiamenti d’uso del suolo, il sovrasfruttamento e l’espansione agricola in Europa e in Asia centrale.
Questo non è un problema solo per la biodiversità selvatica, ma anche per tutte le specie coltivate (o allevate): se una cultivar (varietà agraria di una specie botanica) viene colpita da un patogeno, l’unico modo per mantenere la capacità produttiva è cercare, nella diversità genetica di quella specie, una varietà che sia in grado di resistere a quel patogeno. Perdere questa diversità significherebbe perdere la possibilità di preservare la sopravvivenza stessa di quella specie e di conseguenza di tutta la rete di relazioni che vi sono collegate, e di cui facciamo parte anche noi. Con la limitatezza delle specie consumate a fronte di quelle coltivabili, ci basiamo su un numero ridotto di risorse e questo ci rende esposti alle minacce poste dai cambiamenti climatici, dalla crescita demografica e dalle nuove malattie infettive. 
Oggi la maggior parte dei Paesi ha istituito quadri giuridici, politici e istituzionali per l'uso sostenibile e la conservazione della biodiversità nel suo complesso. In quest’ottica, le politiche riguardanti l'alimentazione e l'agricoltura sono sempre più basate su approcci ecosistemici, paesaggistici e di conservazione. Tuttavia la perdita di biodiversità continua ad andare di pari passo con l’avanzare dei campi coltivati a monocoltura, con l’impoverimento dei terreni e il disboscamento incontrollato, in una corsa in cui le politiche ambientali rimangono ancora troppo indietro. 

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