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Sulle tracce degli elefanti


La giornata della Terra ci ricorda l’importanza di un impegno comune per la tutela del Pianeta. E lo facciamo a partire dalle nostre origini, delle nostre prime spedizioni in Tanzania.

La storia di Istituto Oikos in Tanzania comincia sulle rotte migratorie degli elefanti nel Parco Nazionale del Tarangire, in quelle terre cotte dal sole appena sotto l’equatore. E nacque dall’intraprendenza di Guido Tosi, il ricercatore che di Oikos ha fatto la storia, fondandola e facendola crescere. Nel 1996 si fece convincere da un suo studente che sognava l’Africa a trovare il modo di partire per il Parco Nazionale del Tarangire. Contagiato da tanto entusiasmo riuscì a ottenere, insieme a Rossella, dei fondi dell’Unione Europea per studiare in 3 anni i movimenti migratori e la distribuzione dei grandi mammiferi in questo parco. Così è nata Oikos: da un gruppo di giovani zoologi partiti per l’Africa senza sapere cosa aspettarsi esattamente, ma con una grande voglia di fare e di contribuire alla conservazione di un ambiente naturale unico al mondo.

 

Ricordo benissimo le emozioni delle prime spedizioni, delle notti trascorse in tenda, della prima volta che ho visto gli elefanti. Non sai mai cosa aspettarti da quei giganti imprevedibili, e soprattutto non sai come comportarti quando caricano. E anche se col tempo impari a conoscerli, osservare i loro comportamenti è un’esperienza che lascia sempre senza fiato e a cui non ci si abitua mai.
Per più di tre anni abbiamo seguito i movimenti di 12 zebre, 13 gnu e 7 elefanti i cui pascoli erano in pericolo per le coltivazioni sorte negli ultimi anni proprio su quelle rotte. Utilizzavamo i radio collari e, per la prima volta in Africa, i GPS per gli elefanti. Questo sistema ci ha permesso di individuare le zone in cui il bracconaggio è più diffuso, nonostante i bracconieri spesso strappassero i radiocollari agli animali uccisi per nasconderli sotto terra. Con il GPS riuscivamo a recuperarli, e abbiamo poi assegnato dei ranger che controllassero quelle zone. Non solo: questo metodo ci ha permesso di entrare in contatto con il mondo della ricerca internazionale fin da subito. Facevamo infatti le spedizioni in aereo - atterrando nella savana proprio come nei film - con gli esperti della Frankfurt Zoological Society, autori dei libri su cui io studiavo e con cui adesso lavoravamo a quattro mani. 
Catturare gli elefanti è un’operazione molto delicata. Li seguivamo in aereo e, una volta vicini, sparavamo l’anestetico. Li seguivamo con le auto e, una volta addormentati, posizionavamo i radiocollari (poi sempre tolti alla fine degli studi), prendevamo le misure e ci allontanavamo. E quanto è vero che gli elefanti non dimenticano: la matriarca di un gruppo di cui avevamo catturato una femmina per mesi riconosceva le nostre macchine e, non appena ci avvistava, caricava senza esitazioni.

 

Grazie a questo lavoro congiunto siamo riusciti a tracciare esattamente i movimenti migratori e a mettere in evidenza le aree di maggior conflitto, per poi lavorare con le comunità locali. Questa è stata la parte che ha richiesto più tempo ed energie, ma insieme abbiamo elaborato mappe sull’uso del suolo e avviato percorsi di sensibilizzazione sull’importanza delle rotte. Oggi per chi fa il nostro lavoro questo è un metodo scontato, ma allora non si riteneva che studiare l’ambiente volesse dire studiare anche i comportamenti e le pratiche delle popolazioni che vivono in quei territori. Di ricercatori che utilizzavano metodi scientifici la Tanzania era piena già allora, ma noi eravamo convinti che non si possono proteggere gli animali e le risorse di un ecosistema senza considerare chi con quegli animali convive, e senza offrire gli strumenti per comprendere che certe pratiche possono provocare effetti disastrosi sull’ambiente. Queste sono state le nostre più grandi conquiste: riuscire a lavorare a livello multidisciplinare e in maniera sinergica con l’ente Parco e con le comunità locali. E avere conquistato il nostro spazio nel mondo della ricerca internazionale. 

 

La prima esperienza in Africa ha dato ai ricercatori di Oikos un grande insegnamento: ogni giorno c’è da imparare sempre qualcosa di nuovo, che a volte mette in discussione quello che si era creduto fino al giorno prima. Il grande insegnamento del Tarangire è lasciare sempre spazio al dubbio: questo è ciò che ci permette di andare avanti, e migliorare, e crescere.

 

Valeria Galanti, Project Manager del programma per la conservazione del Parco del Tarangire
 

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