Reintroduzioni: ma a che servono?

Non sono dei capricci da zoologi, ma modi per restituire all’ecosistema un pezzo mancante.

Perché gli scienziati si ostinano a giocare a Noè, spostando animali da una parte all’altra?

C’era davvero bisogno di riportare gli orsi sulle Alpi o i gipeti nei cieli?
In effetti, sì. Le reintroduzioni non sono un capriccio da zoologi con manie di protagonismo, ma piuttosto qualcosa di simile alle operazioni a cuore aperto per un chirurgo: si fanno solo quando non c’è alternativa.
Una reintroduzione viene messa in atto quando una specie è scomparsa da un’area e la si “riporta a casa” per creare una popolazione autosufficiente. Viceversa, se una specie c’è, ma sta crollando, si parla di ripopolamento. In entrambi i casi si tratta di traslocazioni a scopo di conservazione: delicate, complesse e, sì, anche costose. Sono un modo per restituire all’ecosistema un pezzo mancante.

Il ritorno di una specie scomparsa nella sua area di presenza storica riporta equilibrio, biodiversità, funzionalità.
È il caso del grifone e del gipeto: avvoltoi maestosi, fondamentali anche perché si nutrono di carcasse, potenziali fonti d’infezione. Erano scomparsi dall’Italia per molti fattori, tra cui le esche avvelenate ma, grazie all’intervento dell’uomo, oggi sorvolano nuovamente le nostre montagne. Idem per l’orso e per la lince, reintrodotti sulle Alpi dopo che erano pressoché totalmente scomparsi, ma anche per lo stambecco e il cervo sardo, l’ibis eremita, la testuggine palustre, l’ululone dal ventre giallo e lo storione, per limitarci ai vertebrati. Reintroduzioni volute e programmate dalle pubbliche amministrazioni, che hanno seguito processi autorizzativi trasparenti e sono state supportate da studi per verificarne i presupposti biologici e tecnici.

Salvare una specie non è solo evitarne l’estinzione: è prendersi cura dell’intero ecosistema a cui appartiene. E quindi, a ben vedere, anche di noi stessi.