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Un cambio di rotta forzato


Il cambiamento climatico sta modificando i cicli vitali di molte specie animali. Il comportamento degli uccelli in particolare ne è la prova più evidente. Ne parliamo con Francesca Buoninconti, naturalista e giornalista scientifica

Le conseguenze dei cambiamenti climatici sono già sotto gli occhi di tutti: eventi metereologici estremi, siccità, aumento della temperatura media globale, acidificazione e deossigenazione degli oceani. Tutto questo porta inevitabilmente effetti negativi agli ecosistemi e a tutte le specie viventi. Ci sono però organismi che più di altri risentono nell’immediato di tali conseguenze, al punto da poter essere considerati degli indicatori dei cambiamenti climatici.
Ne abbiamo parlato con la naturalista e giornalista scientifica Francesca Buoninconti, autrice di Senza confini. Le straordinarie storie degli animali migratori.

In che modo i cambiamenti climatici possono influire sul comportamento degli animali?
Questo fenomeno impatta su tutti gli aspetti della vita degli animali, spesso generando effetti a catena. Per esempio, nel nostro emisfero, per combattere l’innalzamento delle temperature, molte specie stanno espandendo e spostando il loro areale verso nord o verso quote più alte: piante e animali stanno scalando le montagne. E la stessa cosa avviene nei mari e negli oceani dove, in cerca di acque più fredde, molte specie si rifugiano in acque profonde o si spostano verso i poli. In quest’ottica è evidente che le specie di alta quota o di climi glaciali sono certamente quelle più a rischio su una Terra sempre più calda. Di fatto, stiamo assistendo a una perdita di biodiversità molto veloce: la cosiddetta “sesta estinzione di massa”.
L’aumento delle temperature influenza anche la fenologia delle specie, quindi il loro comportamento nelle varie stagioni: può interferire con i tempi e le modalità del letargo o della diapausa (la fase di arresto spontaneo dello sviluppo di alcuni animali, ndr) di alcune specie. In altre può inficiare il successo riproduttivo. In altre ancora modifica le tempistiche delle migrazioni, immutate da migliaia di anni. Per altre specie il principale problema potrebbe essere fare i conti con le trasformazioni ambientali: incendi sempre più frequenti e vasti, siccità, oppure alluvioni e piogge, eventi meteorologici estremi, mancanza di cibo. Senza contare che l’aumento delle temperature favorisce anche la diffusione di patogeni, dei loro vettori, e quindi di malattie. Potremmo parlarne per giorni. In sintesi, la crisi della biodiversità è solo un sintomo della crisi climatica da noi provocata.

Come ornitologa, ti sei interessata in particolare di migrazioni. I cambiamenti climatici possono influenzare anche le rotte degli uccelli migratori? Come?
Sì: influenzano soprattutto le tempistiche di migrazione per molte specie. Per capire come, però, dobbiamo fare un passo indietro.
Gli uccelli migratori, ogni anno, devono mantenere una promessa: tornare a nidificare nel luogo in cui sono nati. Arrivare nel posto giusto e al momento giusto per loro è di vitale importanza. Le specie che nidificano in Europa trascorrono l'inverno principalmente in Africa e ogni primavera tornano qui dopo un viaggio di migliaia di chilometri, attraversando tre grandi barriere ecologiche: il deserto del Sahara, il Mediterraneo e le Alpi. Devono arrivare in tempo per godere a pieno della primavera, periodo in cui ci sono più ore di luce per svolgere tutte le attività necessarie (conquistare un territorio, un partner, costruire il nido, allevare una o più covate) e in cui c’è la massima disponibilità alimentare (per lo più insetti o le loro larve) per crescere la prole. In migliaia di anni si è evoluta una sincronia perfetta tra l’arrivo dei migratori, la schiusa delle loro covate, e il picco di disponibilità alimentare. Alcuni uccelli, per la loro precisione nelle date di arrivo in Europa, sono chiamati “uccelli calendario”. Ma oggi i cambiamenti climatici stanno spezzando questa sincronia, che non è più perfetta.
Si stima che in Europa il picco di disponibilità alimentare in primavera si stia anticipando tra i 9 e i 20 giorni: gli uccelli migratori, di conseguenza, stanno cercando di arrivare a loro volta in anticipo a destinazione. Molte specie stanno riducendo la durata delle soste durante il viaggio di circa il 20%, soste che però servono per riposarsi e rifocillarsi, per ricostituire le riserve energetiche prima di continuare il viaggio. Quindi rischiano di più per guadagnare tempo e arrivare prima, ma l’anticipo che riescono a guadagnare è di circa una settimana: troppo poco. Dovrebbero ridurre la durata delle soste del 50% per anticiparsi di 9 giorni, e del 100% per guadagnarne 20. Insomma qualcosa di impossibile per piccoli passeriformi che pesano tra i 10 e i 20 grammi e viaggiano per 15.000 km in primavera e altrettanti in autunno.
Anche in autunno, quando dovrebbero migrare verso sud, spesso si trattengono ancora in Europa, ritardando la loro partenza.
Questo è solo l'effetto più evidente per gli ornitologi che sono abituati a misurare e studiare arrivi e partenze dei migratori, ma bisogna tener conto anche delle trasformazioni ambientali causate dai cambiamenti climatici. La maggior aridità, gli incendi, la neve e il ghiaccio che fondono prima e si formano in ritardo non solo modificano le aree di svernamento e di nidificazione degli uccelli migratori, ma anche quelle da loro frequentate durante le soste. E i migratori sono precisi: anno dopo anno passano sempre dagli stessi punti, seguono sempre le stesse rotte, e scelgono persino le stesse isole e aree umide come siti di sosta. Insomma, gli uccelli migratori si stanno impegnando a tener testa ai cambiamenti climatici, ma noi dovremmo aiutarli. Del resto sono i migliori insetticidi che abbiamo, visto che in primavera fanno incetta di insetti nocivi per noi, come le zanzare, o per le nostre coltivazioni, come afidi e bruchi di diverse farfalle e falene.

Qual è uno degli esempi di migrazione più incredibili? 
Sicuramente la sterna artica: il suo è un primato nell'intero regno animale, non solo tra gli uccelli. La sterna artica nidifica intorno al circolo polare artico, dall'Alaska alla Siberia passando per il Nord America e il Nord Europa. Ma trascorre l'inverno nei mari e lungo le coste dell'Antartide. Così questo uccello pescivoro, che pesa appena 100 grammi, ogni anno tra andata e ritorno compie un viaggio di circa 80.000 chilometri. Il record dei record appartiene a una sterna artica nidificante nel nord della Gran Bretagna che ha percorso in migrazione ben 96.000 chilometri. Questo elegante uccello marino, dalla coda a V come quella delle rondini, in una vita media arriva a volare per 2 milioni e mezzo di chilometri: potrebbe fare 3 viaggi di andata e ritorno dalla Terra alla Luna.

I cambiamenti climatici possono avere effetti negativi sulla sopravvivenza di alcune specie più a rischio. Puoi farci qualche esempio?
Parlando di migratori in generale ci sono due “casi limite”. Renne e caribù sono grandi migratori che marciano per migliaia di chilometri. Negli ultimi 20 anni però la popolazione mondiale di questa specie (Rangifer tarandus) si è più che dimezzata: è passata da 4,7 a 2,1 milioni di esemplari. E la colpa è principalmente dei cambiamenti climatici. In Artico piove sempre più spesso invece che nevicare, e la pioggia al suolo ghiaccia, impedendo alle renne di mangiare i licheni che sono l'unica fonte di sostentamento in inverno, periodo in cui peraltro le femmine sono gravide. Gli zoccoli delle renne si sono evoluti per scavare nella neve, ma non riescono a rompere il ghiaccio e dunque le renne muoiono letteralmente di fame. E non hanno pace neanche in estate: nella stagione dei parti, con estati sempre più bollenti, il numero di insetti parassiti che infestano le loro vie respiratorie (come la Cephenemia sp.) o che creano pustole sottopelle (come l'Hypoderma tarandi) sono aumentati a dismisura. 
Anche le tartarughe marine soffrono il cambiamento climatico e intere popolazioni che nidificano lungo le spiagge australiane si stanno “femminilizzando”: il rapporto dei sessi non è più 50 e 50, ma addirittura il 98-99% dei nuovi nati è femmina. Questo avviene perché nelle tartarughe marine il sesso dei nascituri è determinato dalla temperatura di incubazione delle uova nella sabbia, e se si superano i 30°C all’interno del nido, dalle 100-120 uova deposte in ogni nido nasceranno solo femmine. Ed è proprio quello che sta accadendo alla popolazione australiana di tartarughe verdi. Non a caso l'Australia e l'Artico sono due dei posti del mondo che stanno subendo gli effetti più feroci del surriscaldamento globale.

Un’ultima domanda: quando hai capito che avresti voluto fare la naturalista? Cosa significa oggi per te poterlo fare anche divulgando la scienza?
Credo di aver sempre saputo di voler fare la naturalista: l'amore per gli animali e la natura mi accompagna da sempre, almeno che io ricordi. Sono cresciuta praticamente in riva al mare e "spiare" polpi, meduse, lepri di mare, ricci, granchi e ovviamente pesci è stata la cosa più naturale. Più difficile, invece, scegliere in cosa specializzarmi una volta arrivata all'università. Ma come tutte le cose migliori della vita, anche questa scelta - specializzarmi in ornitologia e diventare inanellatrice - è avvenuta un po' per caso e un po' per un incontro fortunato con una serie di professionisti, ormai cari amici.
Da diversi anni lavoro solo come giornalista scientifica, occupandomi ovviamente dei temi che mi sono più cari. Mi è sempre piaciuto raccontare di biodiversità, etologia e clima, ma la passione non basta. Bisogna anche imparare a scegliere le fonti, come scrivere un articolo, una puntata o un post sui social, usare linguaggi differenti in base al pubblico e al mezzo che si sta utilizzando e così via. Significa a volte anche schierarsi, quando bisogna sensibilizzare su alcuni temi importanti e fondamentali: dalla crisi climatica alla perdita di biodiversità, fino alla scomparsa delle dune costiere e delle spiagge. E significa avere anche una grande responsabilità nei confronti di chi ci ascolta, delle generazioni future. Ma del mio lavoro amo anche questo.

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