E se per smaltire la plastica potessimo mangiarla?
C’è chi, da anni, cerca una soluzione nei laboratori di tutto il mondo. E la natura stessa sta fornendo spunti sorprendenti. Dal sottobosco alle discariche, dai laboratori alle onde del Pacifico, alcuni organismi hanno dimostrato di poter mangiare la plastica. Non è una metafora: la degradano davvero, trasformandola in composti più semplici grazie a enzimi specializzati.
I veterani della biodegradazione
La scoperta più celebre risale al 2011, quando un gruppo di studenti dell’Università di Yale, guidati dal Professor Scott Strobel, ha trovato in Amazzonia il fungo Pestalotiopsis microspora. Questo organismo riesce a metabolizzare il poliuretano come fonte di carbonio, quindi come cibo. Lo studio, apparso sulla rivista scientifica Applied and Environmental Microbiology, ha mostrato la capacità di due ceppi di Pestalotiopsis microspora di crescere su un substrato di poliuretano come unica fonte di carbonio sia in condizioni aerobiche (in presenza di ossigeno) e anaerobiche (in assenza di ossigeno) (Russell JR, 2011).
Pochi anni dopo, un altro fungo, Aspergillus tubingensis, è diventato famoso dopo essere stato trovato in una discarica pakistana. Nei test condotti presso l’Accademia Cinese delle Scienze, il micelio – ovvero la parte vegetativa che si sviluppa nel terreno – di questo fungo ha degradato un foglio di materiale plastico in poliuretano, riducendolo in poltiglia in soli due mesi (Sehroon Khan, 2017)
Più recentemente, l’attenzione si è spostata in Australia. Qui, alcuni ricercatori dell’Università di Sydney hanno identificato due specie di funghi, Aspergillus terreus e Parengyodontium album, in grado di degradare completamente il polipropilene in 140 giorni. Questi esperimenti prevedevano un pretrattamento fisico-chimico per indebolire il materiale, ma dimostrano comunque una capacità di degradazione che prima si riteneva impossibile.
E in acqua? Nel 2024, Parengyodontium album è stato individuato anche nell’Oceano Pacifico, dove ha aggredito rifiuti plastici in mare aperto, nell’area del Pacific Garbage Patch, il più grande accumulo di plastica galleggiante al mondo. Questo fungo agisce grazie all’azione combinata dei raggi UV ed è in grado di rompere i legami molecolari dei polimeri (A. Vaksmaa, 2024).
Non solo funghi: batteri e insetti “spazzini”
Anche gli insetti contribuiscono alla demolizione della plastica. Nel 2017, la biologa italiana Federica Bertocchini scoprì per caso che le larve della tarma della cera (Galleria mellonella) riescono a bucare e digerire il polietilene, la plastica comunemente usata per sacchetti e imballaggi. Bertocchini, appassionata di apicoltura, aveva buttato delle tarme della cera che infestavano i suoi alveari in un sacchetto di plastica, per trovarlo completamente divorato poco tempo dopo! Le larve di questi insetti, infatti, secernono enzimi capaci di degradare i polimeri in pochi giorni (Bombelli P., 2017)
Un altro esempio arriva dal verme della farina minore (la larva del coleottero Alphitobius diaperinus), che grazie ai batteri intestinali riesce a digerire il polistirene, materiale notoriamente resistente. Ricerche pubblicate su Science of the Total Environment hanno confermato che queste larve possono trasformare fino al 50% del polistirene ingerito in CO2 e biomassa (Yu Yang, 2020).
Tra i batteri più studiati spicca Ideonella sakaiensis, scoperto nel 2016 in un impianto di riciclaggio in Giappone. Questo microrganismo produce un enzima chiamato PETasi che rompe i legami del PET (polietilene tereftalato), una plastica usata per bottiglie e tessuti sintetici ( (Shosuke Yoshida, 2016).
La soluzione definitiva?
Per quanto promettenti, queste scoperte non bastano ancora a risolvere il problema globale dell’inquinamento da plastica. La degradazione biologica richiede tempi lunghi, spesso pretrattamenti chimici o termici. Sebbene sia una soluzione studiata da tempo, non è ancora emersa una strategia definitiva. Ma ogni nuova scoperta scientifica apre nuovi interrogativi, che porteranno a nuove scoperte e ancora a nuove ricerche: come funzionano e come si sono evoluti questi enzimi? Quali condizioni ambientali ne ottimizzano l’efficacia? È possibile usarli su scala industriale in modo sicuro ed economico?
E, anche se non esiste un solo microrganismo in grado di liberare gli oceani e i suoli da tonnellate di rifiuti, ogni scoperta amplia le nostre possibilità. E ci ricorda di guardare alla complessità della natura e alla continua ricerca di un equilibrio che a cui si tende, senza arrivarci, in un dinamismo continuo, che fa trovare sempre nuovi adattamenti.
Guardare al mondo vivente con curiosità e rispetto può fornire strumenti preziosi. E può spingerci a ripensare i nostri consumi, a cosa e come produciamo e a promuovere sistemi di raccolta e riciclo più efficienti, investendo nella ricerca e nell’innovazione di nuovi materiali.
Riferimenti
A. Vaksmaa, H. V. (2024). Biodegradation of polyethylene by the marine fungus Parengyodontium album. Science of The Total Environment, 934. doi:https://doi.org/10.1016/j.scitotenv.2024.172819
Bombelli P., H. C. (2017). Polyethylene bio-degradation by caterpillars of the wax moth Galleria mellonella. Current Biology, 27(8), Polyethylene bio-degradation by caterpillars of the wax moth Galleria mellonella. doi:https://doi.org/10.1016/j.cub.2017.02.060
Russell JR, H. J. (2011). Biodegradation of polyester polyurethane by endophytic fungi. Appl. Environ. Microbiol., 7(17), 6076 – 6084. doi:10.1128/AEM.00521-11
Sehroon Khan, S. N. (2017). Biodegradation of polyester polyurethane by Aspergillus tubingensis. Environmental Pollution, 225, 469-480. doi:https://doi.org/10.1016/j.envpol.2017.03.012
Shosuke Yoshida, K. H. (2016). A bacterium that degrades and assimilates poly(ethylene terephthalate). Science, 351(6278), 1196-1199. doi:DOI: 10.1126/science.aad6359
Yu Yang, J. W. (2020). Biodegradation and mineralization of polystyrene by plastic-eating superworms Zophobas atratus. Science of The Total Environment,, 708. doi:https://doi.org/10.1016/j.scitotenv.2019.135233